Era il 1901 e a Stoccolma veniva assegnato per la prima volta il premio Nobel per la letteratura. In 114 anni di storia non sono tante le donne ad aver vinto questo ambito premio: solo 14 rispetto ai 99 vincitori di sesso maschile. La neovincitrice scrittrice e giornalista bielorussia Svetlana Aleksievich, eletta la scorsa settimana, è la quattordicesima.
La seconda invece è Grazia Deledda: vinse il Nobel nel 1926 “per la sua ispirazione idealistica, scritta con raffigurazioni di plastica chiarezza della vita della sua isola nativa, con profonda comprensione degli umani problemi”.
Grassia: la prima ed attualmente unica scrittrice italiana ad essere stata insignita del prestigioso Nobel. Si dovrebbe essere orgogliosi di lei, invece la grande autrice sarda appare scomparsa dalla maggior parte dei libri scolastici e persino dimenticata dalla critica.
Quando nacque nel 1871, Nuoro contava appena 6000 abitanti. Era un’isola nell’isola, poco più di un villaggio nel cuore della Sardegna, eppure già considerato “Atene sarda”, per la ricchezza dei suoi artisti che cantavano le radici più genuine della cultura barbaricina, che esprimevano il contrasto tra la civiltà incipiente e le antiche radici sarde, il contrasto di un paese colto e battagliero allo stesso tempo. La cultura barbaricina manteneva rigidamente divisi i ruoli tra uomini e donne, e la letteratura, che fosse in lingua sarda o in lingua italiana, era cosa da uomini.
La sua vincita creò molto scalpore a causa della sua formazione culturale, quasi esclusivamente autodidatta; della tematica della sua opera, del fatto che fosse una donna e del suo atteggiamento schivo e riservato, estremamente distante dall’ambiente letterario italiano dell’epoca.
Ostacolata dalla sua stessa famiglia, Grassia lotta per realizzare il suo obiettivo. Lotta contro la critica italiana etnocentrica del tempo che considerava uno scrittore scadente chi non maneggiava alla perfezione gli strumenti della lingua italiana. Lotta per imparare una lingua dominante che le consentisse di raccontare le storie che provenivano dalla sua terra: impara da sola il francese e l’italiano e diventa perfettamente bilingue solo intorno ai trent’anni.
Nel 1909 fu la prima donna in Italia ad essere candidata alla Camera dei Deputati: prese appena 34 voti, e 31 furono subito invalidati, a causa delle frasi riportate nelle schede elettorali. Il collegio elettorale di Nuoro le mandò così il messaggio di benservito. «I voti furono ben pochi, come prevedevo - racconta la stessa Deledda -. Ma ciò che più mi ferì fu la frase di commento che qualcuno fece: "Bah, cussa poledda! A cue puru si che cheret intrare!"»
Lotta per creare un ponte tra le due culture: quella italiana e quella sarda: all’interno dei suoi romanzi l’isola prende vita e diventa così un territorio mitico e senza tempo dove si svolgono le grandi tragedie umane.
Attraverso le pagine dei suoi libri si respira il bisogno di un cambiamento che può essere sociale, morale o derivante da un’esperienza che porta i suoi personaggi a vedere con occhi diversi il mondo; lei scardina e descrive la crisi di un’istituzione che per millenni aveva retto le regole etiche della società: la famiglia.
E’ innovativa e mette spesso in luce la rottura tra il vecchio e il nuovo, lo stimolo e il bisogno di trasgredire le regole ma, allo stesso tempo, non dà alcun giudizio morale sui personaggi; vive con loro il tormento e lo affronta, lasciando sempre al destino l’ultimo gesto.
E’ passato molto tempo da quel Nobel, ma la sua opera appare più che mai attuale. I suoi romanzi, che possono essere considerati tra i più grandi del patrimonio letterario italiano, non vengono ancora valorizzati nel modo giusto ma Grazia Deledda è la Sardegna: quando la vive, quando la racconta e perfino quando la abbandona.