Ebbene si,
anch’io sono uno di quelli che ha fatto un anno di scuola all’estero e che vuole condividere la sua esperienza con voi, a prescindere dal fatto che possiate essere futuri viaggiatori o gente adulta e realizzata.
Innanzitutto, l’esperienza all’estero non è una vacanza. Non è un’esperienza per sfaticati o per gente che crede che sia solo un gioco. Non va presa alla leggera, come molti fanno. Quando un ragazzo decide di andare all’estero, l’obiettivo principale è imparare e/o migliorare le competenze linguistiche (generalmente l’inglese) che al giorno d’oggi sono fondamentali, per qualsiasi tipo di lavoro. Chiunque può confermare (e dunque anch’io) che una lingua, per quanto ci si possa impegnare sui libri e ripetere a pappardella le regole basilari, la si impara nel vero senso della parola soltanto recandosi in un paese dove la si parla giorno e notte e dove si è costretti a parlarla.
Io, ad esempio, sono stato per dieci mesi tondi nella tipica cittadina britannica, con le tipiche villette britanniche e il tipico clima britannico; nel mio caso, Barry, nel Galles, sul mare e a dieci minuti di macchina e mezz’ora di treno da Cardiff, la capitale del Galles. Nessuno parlava italiano in quella città! Non un altro exchange student italiano, non un italiano trasferitosi per lavoro, non qualcuno che conoscesse qualcosa di italiano che non fosse “pizza”, “pasta” e “bolognese”. Anche se nessuno lo ammette facilmente, un diciassettenne preso e catapultato chissà dove nel mondo senza famiglia e senza gli stessi amici di sempre, si sente parecchio spaesato e perlomeno qualcuno che proviene dalla stessa nazione gli sarebbe di enorme conforto, almeno la prima settimana di adattamento. Vi svelo un segreto: menomale che ero l’unico italiano! Messo alle strette e non avendo alternative, ero costretto ad usare l’inglese scolastico (in Italia, per l’insegnamento dell’inglese, siamo lo zimbello d’Europa; ma ci ritornerò...) che era in mio possesso e arrangiarmi. Ovviamente non sono mancati i momenti di imbarazzo in famiglia in cui ero impegnato a spiegare qualcosa e all’improvviso... PUF, e adesso come glielo faccio capire? La parola fondamentale ti manca, ti mordi la lingua e provi a fare cento giri di parole per arrivare a un concetto basilare. Ovviamente, la mia host mum (mamma ospitante) aspettava e sorrideva; magari proponeva. E quando allora arrivavo a ciò che volevo dire, eccola lì che arriva: che soddisfazione! Questa esperienza si basa su queste piccole soddisfazioni, piccoli ostacoli che prima o poi si superano! Sono bazzecole, se paragonati ad altri ostacoli che potrebbero capitarvi nella vita, e le persone di una certa età confermeranno di sicuro! Ecco perché uno dei miei tanti consigli per i futuri viaggiatori è quello di non aver paura di parlare in lingua straniera! Fatelo, e se sbaglierete (anzi: quando sbaglierete) ricordatevi che non è la fine del mondo. Magari coloro con cui state parlando faranno delle facce stranite, perplesse; magari qualcuno ridacchierà, ma questo non deve essere un motivo di scoraggiamento: sbagliando si impara, ricordate?
Inoltre, non ci si deve scoraggiare quando si arriva in una nuova famiglia: basta fare del vostro meglio per non far capire agli altri della casa quanto ci si trova male. In quasi tutti i casi capita; io il primo mese pensavo solo “Ma chi me l’ha fatto fare?”. E’ normalissimo, ma basta vivere ogni cambiamento possibile, non essere testardi e fare ciò che gli altri fanno. Dopo Halloween, si acquisisce la routine quotidiana e tutto sembra meno complicato. E’ un dato di fatto.
La questione della lingua e dello stare con persone che si potrebbero capire al 70% invece che al 100%, è una delle difficoltà maggiori; ogni studente che parte ne è consapevole. Così come ci sono molte altre difficoltà, tra cui la nostalgia di casa (chi più, chi meno) e il cibo: agli italiani in primis quest’esperienza all’estero distrugge le papille gustative. Parola di fiero estimatore della cucina tricolore. Ovviamente non è un problema insormontabile; tuttavia la pizza immersa nel ketchup, gli spaghetti cucinati senza sale e il burro spalmato ovunque (no, non è un eufemismo) vi faranno venire voglia di farvi la spesa per conto vostro. Sono comunque delle cose che non vanno sottovalutate; un altro mio consiglio per coloro che volessero partire un domani è che sono dieci mesi, non dieci anni: pensate a godervi l’esperienza al massimo, avrete tutto il resto della vostra vita per stare con gli amici italiani e con la vostra famiglia!
Passiamo a un argomento a se stante: la scuola.
Innanzitutto: se si è italiani e (ovviamente) abbastanza studiosi, non si ha alcun tipo di problema, in particolare agli esami. La quantità di materiale che in Italia si studia per una normale interrogazione di storia alle superiori è pressappoco la stessa che viene richiesta all’esame di fine anno. E questo la dice tutta.
Ci sono parecchie differenze tra la scuola italiana e la scuola di un altro paese. Molte cose sono migliori nello stato estero in cui ci si è trasferiti, altre in Italia. Faccio l’esempio di quella britannica in cui sono stato.
Non c’erano materie obbligatorie in ogni scuola, come avviene in Italia. Gli ultimi due anni delle superiori, quelli che da loro definiscono Sixth Form, si possono scegliere le materie che si vuole continuare a studiare: in genere sono tre o quattro, dato che poi gli orari di molte di esse coincidono. Ma bisogna specificare che c’è ogni genere di materia desiderabile: ogni tipo di campo scientifico (fisica, biologia, geologia, chimica, scienze applicate), le materie normali (inglese letteratura/lingua, matematica, storia, geografia, educazione fisica) e materie che in Italia puoi studiare solo se prendi un determinato indirizzo di scuola superiore o solo in alcune specifiche facoltà universitarie (sociologia, studio dei media, business, tecnologia informatica, informatica applicata, musica, filosofia, fotografia, studio dei film, teatro e via dicendo...). Inoltre, se per esempio una delle tre che si è scelto dopo qualche lezione non piace più, allora la si può cambiare con un’altra ed è un qualcosa che è permesso fino ad ottobre. Nel mio caso, ecco le tre: History (Storia), Media Studies (Studio dei media) e Physical Education (Educazione fisica). Perché dover studiare fino alla fine una materia che non si ama, che non si vuole studiare all’università e che si fa svogliatamente? Meglio poche ma fatte bene. Inoltre con la vasta gamma di materie, non si può neanche dire che “non ne trovo una adatta per me”. Infatti, nel mio caso, Media Studies è probabilmente la materia più bella che io abbia mai seguito nella mia intera carriera scolastica. Giusto per entrare nel dettaglio, Media Studies è lo studio e l’analisi dei media che oggi ci circondano e di cui non potremmo fare a meno (tra cui film, radio, tv, giornali, magazine, internet), di come essi influenzano l’audience e delle molte teorie che li riguardano, tra cui quelle di Karl Marx e Antonio Gramsci (che furono tra i primi a parlare dei media e dei loro effetti sulle persone) e quelle che riguardano gli studi più recenti come ad esempio l’effetto Werther (i media ritengono che pubblicizzare i suicidi induca a imitarli; come quando Marylin Monroe e Kurt Cobain si tolsero la vita e i suicidi aumentarono del 40%).
Tra le altre cose ottime vi erano la disponibilità di tutti i professori (ancora di più nel mio caso, dato che ero uno studente straniero), i laboratori enormi a disposizione degli studenti, la biblioteca dove si andava a studiare (perché studiare a casa quando puoi farlo nelle ore buco a scuola?), un’aula ricreativa per giocare a carte o rilassarsi se non si doveva studiare o non si aveva lezione e il fatto che la scuola avesse un’ottima organizzazione: in Italia si sente sempre di riforme e manifestazioni contro di esse, scioperi di studenti, professori, bidelli, cani e gatti e via dicendo. Lì non esistono; o perlomeno sono rarissime. Gli orari delle lezioni erano organizzati alla perfezione, il ritardo o il non aver fatto i compiti in tempo avevano pochissima tolleranza (se si era fortunati) e inoltre bisognava portare l’uniforme, la quale mi ha affascinato tantissimo. Dava più senso di unità alla scuola (che ci teneva tantissimo) ed era fondamentale averla: in caso contrario, si veniva mandati a casa.
Dall’altra parte, bisogna anche dire che non era tutto meraviglioso. I difetti li hanno tutte le scuole; purtroppo non esiste quella perfetta.
Le quantità di lavoro per casa erano davvero nulla in confronto a quelle della scuola italiana, e dato che studiano molto poco, molto schematicamente e solo alcune materie, la loro conoscenza globale è molto più ristretta della nostra. Una volta mi è successo che, parlando delle campagne in Africa di Mussolini, una compagna di classe abbia chiesto dove si trovasse l’Etiopia; la prof si è alzata, si è avvicinata alla cartina che raffigurava l’intero globo e col dito è partita dagli Stati Uniti, arrivata in Marocco, poi in Grecia e in seguito in Medio Oriente. Ho chiesto di poterglielo far vedere, mi sono avvicinato e le ho mostrato il Corno d’Africa e dunque l’Etiopia e mi hanno fatto un sacco di complimenti per un qualcosa che non aveva nulla di eccezionale! Non voglio vantare me o prendere in giro la ragazza che non lo sapeva, perché in quanto studenti abbiamo il diritto di non saperlo e di impararlo, ma che la professoressa (giovane) che spiega l’argomento non conosca la posizione geografica di ciò di cui sta parlando... per non parlare delle volte in cui è spuntato fuori un Francisco Franco socialista, una Francia alleata dei nazisti (da certe compagne che insistevano anche dopo aver cercato su Wikipedia) e un’Italia nata non nel 1861 (dalla prof che, per dirla tutta, si ostinava parecchio contro di me per questo...).
So che ci sono molti adulti che ritengono che fare la quarta superiore all’estero voglia dire sostituirla con un “anno di nulla”. Mi sento in dovere di porre una domanda al riguardo: ogni ragazzo che va a fare un anno all’estero e lo finisce senza farsi cacciare (per bere e fumare e altro; capita spesso) ottiene un riconoscimento che va sul curriculum vitae, ottiene dei crediti formativi, ottiene la padronanza di una lingua che gli garantisce sicurezza dovunque vada, conosce amici con cui, probabilmente, legherà per tutta la vita, passerà uno dei migliori anni della sua vita. Come si può considerarlo un anno di nulla?
Purtroppo in Italia il Ministero non investe abbastanza nello studio dell’inglese a scuola. Non si fanno abbastanza esercizi di pronuncia, non ci sono madrelingua (perlomeno, non ovunque) e si preferisce insegnare la letteratura.
Un giorno di scuola, a Barry, ho chiesto a un mio amico se conoscesse Beowulf (poema britannico che può essere paragonato alla nostra Eneide) o le storie di Canterbury (famosa raccolta di Chaucer). Lui aveva sempre studiato letteratura inglese sin dai sei anni, ma non aveva la più pallida idea di cosa stessi parlando. Che cosa mi rispose? Loro come primo argomento studiano Shakespeare, anni luce dopo Beowulf. Com’è possibile che in Italia si studino parti di letteratura straniera quando neanche nella terra d’origine di quella letteratura le studiano?
Sono venuto anche a sapere da miei amici norvegesi e tedeschi che in Germania e in Norvegia l’università è gratuita: nel senso che le tasse universitarie non si pagano. Quando gli ho detto che in Italia non era così, mi hanno fissato basiti.
Ecco a cosa può servire un’esperienza del genere: ad aprire gli occhi sulle condizioni del posto in cui si vive, a comprendere cosa va male e quello di cui andare fieri (dopo un anno all’estero ci sono anche le cose che fanno sentire fiero di essere italiano). Fa conoscere un mondo completamente diverso dal proprio, si condividono esperienze con gente diversa e così facendo ci si arricchisce l’un l’altro.
Potrei raccontare tantissime altre cose: ad esempio la mega gita a Londra a Natale e per il giorno del mio compleanno a marzo con una quindicina di altri exchange students. Tra i giorni più belli della mia vita. Come potrei dimenticare le corse per raggiungere in tempo i treni per andare da una parte all’altra di Londra? O quando da un ristorante italiano siamo finiti a Chinatown senza avere la minima idea di come ci fossimo arrivati? O la vista del Big Ben e del London Eye di notte da un ponte sul Tamigi? O il luna park enorme dove ci siamo mescolati ai bambini e saliti sulle giostre vicino a Piccadilly Circus? La famosa canzone degli Alice Cooper “School’s Out” (La scuola è finita) a tutto volume nel cortile della scuola dopo la fine degli esami (che non devono spaventare, è tutta scena e per nulla difficili), le feste in spiaggia con i falò, la Guy Fawkes Night, il party di Halloween: il divertimento (e che divertimento!) non manca affatto, anzi!
Adesso ho amici in Gran Bretagna, Svizzera, Norvegia, Germania. C’è chi verrà a trovarmi, chi mi ha invitato all’Oktoberfest di Monaco di Baviera, chi mi ha invitato ad andare quando voglio a casa sua, c’è chi sta programmando di trovarci a metà strada in Germania per una rimpatriata fra qualche anno. Tutto ciò non ha prezzo.
Riguardo a quest’ultimo, ovviamente capisco chi decide di non partire per questioni economiche. I viaggi all’estero non sono mai da portafoglio vuoto. Ma non pensiate che io provenga da una famiglia ricca, anzi. I miei hanno fatto tanti sacrifici per farmi partire! Se alcuni genitori fossero indecisi se mandare un figlio o una figlia un anno scolastico all’estero perché hanno programmato una vacanza di una misera settimana (anche se in una città come New York, Parigi o Rio de Janeiro) tutti assieme appassionatamente, ci ripensino. Meglio sacrificare l’acquisto di una macchina nuova, di una vacanza all’estero o di una casa nuova e investire sui propri figli; se si hanno ragazzi/e in gamba, si viene ripagati con figli che avranno tantissime opportunità di lavoro in più in futuro, che avranno una visione del mondo molto più allargata e concreta e che cambieranno (chi più, chi meno) sicuramente in positivo. Mi sembra che l’investimento non sia male, no?
A year abroad is a life in a year / un anno all’estero è una vita in un anno.
Luca Mannea